di Livio Pepino* da Il Manifesto del 4/6/11 – pag. 15
Tutti lo sanno e, a telecamere spente, lo ammettono. La linea
ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione non si farà: né oggi, né mai.
Per la provvidenziale resistenza del popolo No Tav. Ma anche per
un'altra (sopravvenuta) decisiva ragione: non ci sono - e, in tempi di crisi, non ci saranno - i fondi. I famosi e magnificati finanziamenti
europei potrebbero consentire solo sondaggi, cantieri, strade di accesso
e qualche traforo esplorativo. Intanto, però, i semilavorati
servirebbero a dare un po' di ossigeno alla (scarsa) credibilità di chi continua a cercare consenso elettorale con la promessa di "grandi opere"
e alla fame di commesse di chi vede assottigliarsi i tradizionali
rivoli di denaro pubblico.
Dunque, avanti tutta! Meglio se con la forza, per dare finalmente
la lezione che merita a quella banda di "straccioni" (montanari e centri
sociali...) che continuano a opporsi al progresso. Così l'Unione
industriali invoca l'intervento della polizia per disperdere i No Tav e
scrive al Ministro dell'interno invitandolo a «fare tutto ciò che
serve per aprire il cantiere della Maddalena entro il 31 maggio, ovvero
la scadenza imposta dall'Unione europea». All'associazione degli industriali dà manforte l'assessore regionale ai trasporti che spiega come «di
fronte agli agitatori di professione che si muovono nell'illegalità non
ci sono regole d'ingaggio e lo Stato deve fare tutto ciò che è in suo
potere per ripristinare il normale ordine delle cose». E, per non essere da meno, il vecchio e il nuovo sindaco di Torino proclamano all'unisono che l'unica urgenza è «l'apertura del cantiere».
C'è da non crederci. L'utilità delle "grandi opere" nel nostro
Paese (quella pubblica, intendo) è sotto gli occhi di tutti; i danni
provocati dalla devastazione dell'ambiente riempiono ogni giorno le
pagine dei media; la crisi economica sta spegnendo in tutto il mondo le
illusioni di una crescita infinita e incontrollata; la funzionalità -
fra venti o trent'anni - del sistema di trasporti in cui si inserisce la
linea ferroviaria progettata è, ormai, messa in dubbio da esperti di
destra e di sinistra. Per tacere - e non è certo l'ultimo tema... - dei
danni alla salute che si prospettano per gli abitanti della valle. Buon
senso e razionalità vorrebbero che si aprisse finalmente un confronto
ampio e pubblico sul se proseguire nel progetto e non solo sul come
procedere.
E invece no. Anzi, per dare credibilità a questa irrazionale
rimozione, dopo avere vanamente cercato di oscurarlo, si cerca di
criminalizzare un movimento che, in ventidue lunghi anni, ha dato
dimostrazioni di coerenza, maturità e capacità di aggregazione non
comuni. Il tentativo non si ferma all'uso spregiudicato dei media. Il
seguito giudiziario è un corollario di ogni forma di opposizione
sociale. E, fin qui, siamo nel fisiologico. Ma in alcune vicende stanno
emergendo fatti inquietanti. Due esempi per tutti. Dopo anni si è aperto
il dibattimento in un processo a carico di due sindaci imputati di
lesioni a due agenti di polizia nel corso di una manifestazione del
dicembre 2005. Fatto, comunque, di minima rilevanza, non essendo
contestata neppure l'immancabile resistenza. Ma tanto è bastato a creare
il mostro: il presidente del tribunale di Torino ha infatti disposto
che il dibattimento non si svolga nella sede naturale di Susa ma
nell'aula
bunker del capoluogo, annessa al carcere delle Vallette, impiegata sino
ad ora solo per processi di mafia e di terrorismo, così parificando nei
fatti a tali fenomeni la resistenza della valle... Ancora più
allarmante la seconda vicenda, emersa nel processo civile intentato
dalla Ltf (la società preposta alla realizzazione della linea
ferroviaria ad alta velocità) contro alcuni esponenti No Tav, tra cui un
sindaco, per ottenere il risarcimento dei danni provocati dalla mancata
esecuzione, nel gennaio 2010, di un sondaggio geognostico nei pressi di
Susa. Tra le somme di cui si chiede il risarcimento ci sono 36.272 euro
spesi per provvedere (su richiesta del prefetto di Torino) «all'alloggiamento delle forze dell'ordine intervenute per mantenere l'ordine pubblico»
(sic!). Dunque - apprendiamo - le forze dell'ordine preposte a
garantire la legalità in una situazione di conflitto sono pagate da una
delle parti in causa. Come dire che
l'arbitro è pagato da una delle due squadre.
Come si vede i guasti di una politica dissennata ricadono anche sul
piano istituzionale, con conseguenze che vanno ben oltre il caso
specifico. È troppo chiedere a una "sinistra di governo" che proprio
grazie alla radicalità di alcuni ha vinto i ballottaggi di provare a
distinguersi dalla destra?