tratto da Carta - di Marco Arturi
Mattinata uggiosa, mi dirigo verso il presidio No Tav della Maddalena di Chiomonte.
Sono giorni tesi: oggi scade il termine ultimo per l’inizio dei lavori
legato all’erogazione dei fondi europei, e dopo la prima notte di
resistenza – blindati della polizia e mezzi da lavoro fermati dalle
barricate e respinti da una sassaiola che ha il sapore di un’intifada
alpina – la partita si gioca sui nervi: ogni momento potrebbe essere
quello buono per un nuovo attacco. Mi arrampico per la strada
dell’Avanà, che si chiama così perché è circondata da vigne che in gran
parte ospitano piante del più diffuso tra i vitigni autoctoni della Val
di Susa. E’ la prima volta che frequento questi luoghi con la luce del
giorno e finalmente posso vedere i vigneti inerpicati su pendenze da
vertigine, i terrazzamenti sostenuti dai muretti a secco tipici della
viticoltura di montagna. Uno spettacolo già visto altrove, in Valle
d’Aosta, alle Cinque Terre, in Valtellina, nei posti in cui per la
viticoltura si può spendere l’aggettivo «eroica».
Cerco la cantina di una cooperativa che si chiama come il presidio,
Clarea, e fatico un po’ a trovarla fino a quando non mi rendo conto che
sta all’interno dell’area del presidio stesso, nella «Libera Repubblica
della Maddalena». Piove, e molti resistenti dormono nei sacchi a pelo
piazzati sotto il porticato: devo scavalcarne qualcuno per arrivare
all’ingresso, dove mi aspetta uno dei soci, Andrea Turio. Ho preso
appuntamento con lui per fare di necessità virtù, per capire qualcosa di
questi vini che non conosco, anche se sono da queste parti per
questioni che con il vino c’entrano poco. Ma fino a un certo punto: il
movimento No Tav ha appena diffuso un comunicato in difesa del vino
dell’alta Valle di Susa, nel quale vengono rievocate le antichissime
origini di questa viticoltura – introdotta, pare, dagli etruschi – e si
ricordano gli enormi sforzi fatti negli ultimi anni per il suo recupero
in seguito all’abbandono cominciato negli anni ’60. Il documento
termina secco: no al Tav che uccide il vino della valle, no al Tav che
uccide il lavoro dei viticoltori. Andrea mi spiega che il culmine
dell’abbandono dei vigneti è coinciso con la costruzione
dell’autostrada, un’opera devastante dal punto di vista ambientale, e
che la storia rischia di ripetersi. Sarebbe un peccato imperdonabile,
dal momento che qui è in corso da un quindicennio il recupero di diverse
varietà autoctone: un patrimonio ampelografico unico, una testimonianza
di diversità irripetibile. Ma ancora di più si tratta del ripristino di
una cultura, perché, specie a Chiomonte, la vigna ha sempre fatto parte
del panorama paesaggistico quanto di quello umano: ogni famiglia aveva
il suo pezzetto di vigna, dal quale tirava fuori il suo vino. Lo stesso
vessillo del Comune parla chiaro: due tralci con due grappoli d’uva e il
motto «Jamais sans toi». Fino a un certo punto qui tutti sono nati
viticoltori. Poi, il progresso.
Cerco la conferma della vicenda valsusina nei vini che Andrea – che è
uno vero, me lo dicono il suo sguardo montanaramente cazzuto e il fatto
che ama chiaramente il vino che produce – mi fa assaggiare in rapida
successione. Provengono da vigne poste a un’altezza che varia
tra i 750 e 1000 metri, in un quadro caratterizzato da terreni molto
diversi anche a breve distanza, clima secco, buona ventilazione e
notevoli escursioni termiche. L’avanà, gemello dell’hibon noir
che cresce in Savoia e Val d’Isère, regala in purezza un vino scarico al
colore, caratterizzato da una trama tannica gentile e da un’acidità
notevole, bevibilissimo; spesso viene associato in uvaggio a un altro
autoctono come il becuét, alla neretta cuneese [che a dispetto del nome
ormai si trova soltanto più qui] e alla barbera, al fine di conferirgli
colore e struttura. Il Becuét è figlio di vigne giovani ma già lascia
presagire un potenziale interessante: corpo, personalità, mineralità più
un’acidità portentosa, la stessa che ritrovo nella Barbera, notevole, e
nel Dolcetto.
C’è davvero qualcosa di ribelle in questi vini – ne assaggerò altri
nei giorni seguenti – che risiede nel loro portamento fiero e nella loro
immediatezza. Parlano un linguaggio sciolto, privo di metafore e
iperboli, vanno dritti al dunque; sono concepiti per accompagnare il
cibo e assolvono a questo compito in modo esemplare. Magari è che chi li
produce è abituato a vederli più come alimenti da consumare che come
prodotti di vendita, immagino.
Mentre
scendo verso Torino mi fermo in un bar; chiedo alla proprietaria se ha
in vendita vini della zona, ma mi dice di no. Credo che colga lo
sconforto nella mia espressione, perché mi dice «se vuole le faccio
assaggiare quello di mio marito». Perché no le dico, pensando che
magari, che stai a vedere che. Tira fuori un bottiglione da un litro e
mezzo e mi versa il vino in un bicchiere inadeguato, ma va bene lo
stesso. Profumi non riesco a coglierne, ma in bocca ecco ancora
quell’immediatezza diretta. Credo sia becuét tagliato con qualcosa
d’altro, forse dolcetto, ma che importa: è buono sul serio. Chiedo alla
signora se è possibile averne qualche bottiglia, ma lei mi risponde che
ne é rimasto troppo poco e che comunque loro il vino non lo fanno per
venderlo. Mentre sto per uscire mi dice di aspettare, tira fuori da
sotto il bancone un altro bottiglione e me lo porge. Quanto le devo,
chiedo, lei mi risponde sorridendo fiera «le ho appena detto che non è
in vendita».
Si rassegnino, i signori della Tav: in mezzo a queste vigne il loro treno non ci passerà mai.