martedì 28 giugno 2011

Non Siamo come loro








tratto da Carta.org

Mancano pochi minuti alle otto quando polizia e carabinieri decidono di dare seguito all’ordinanza prefettizia che prevede lo sgombero della «Libera Repubblica della Maddalena». Gli uomini delle forze dell’ordine, diverse centinaia, indossano la maschera antigas a completare la tenuta antisommossa e scortano ai lati la ruspa che di lì a poco sfonderà la cancellata di ingresso del presidio. E’ una metafora forte, quella degli agenti che con fare metodico smontano le inferriate divelte dal bulldozer e distruggono l’insegna che preannuncia l’ingresso in un territorio che per trentaquattro giorni è stato il domicilio delle speranze di chi crede che la parola «resistenza» abbia ancora un significato tangibile.
Qualcuno piange, altri urlano la loro indignazione a poca distanza dalle visiere degli uomini in divisa. L’atmosfera è tesa ma nessuno, da una parte e dall’altra, vuole uno scontro che, nelle condizioni date, rischierebbe di trasformarsi in una mattanza. Però alcuni cominciano a sentire l’odore – non solo in senso figurato – dei giorni del G8 di Genova, quando una tempesta di lacrimogeni investe il cuore del territorio libero, il presidio Clarea. Chi è rimasto a valle, costretto da un divieto di ingresso che riguarda anche i giornalisti, comincia a essere in apprensione per quanto sta accadendo e prende la via dei sentieri che solo chi è pratico di questa zona può conoscere. Così accade che i boschi che sovrastano le vigne di avanà, vitigno autoctono che correrà seri pericoli di sopravvivenza se cominceranno i lavori, risultino in breve affollati dai manifestanti che salivano per portare il loro aiuto al presidio e da quelli che fuggono dal presidio stesso, dove i lacrimogeni hanno provocato l’incendio di alcune tende. In breve diventa impossibile respirare ma soprattutto vedere, dal momento che questi gas risultano fastidiosissimi per gli occhi. La battaglia nell’area di Clarea si esaurisce abbastanza velocemente, anche se i feriti risulteranno essere più del previsto. Un elicottero volteggia sulle teste dei fuggitivi, mentre dalle strade che circondano l’area arriva il suono delle sirene delle ambulanze, che cominciano il solito carosello.
La Maddalena è persa, almeno per ora, e mentre i No Tav già studiano come riconquistarla [il ricordo di Venaus è confortante] la Fiom di Torino proclama uno sciopero nelle aziende della zona e i manifestanti bloccano la statale, già intasata a causa della chiusura dell’autostrada disposta dalle autorità. C’è un po’ di scoramento per come è andata – nessuno pensava seriamente di poter fronteggiare militarmente un contingente come quello che si è presentato alle prime luci dell’alba a Chiomonte – ma nemmeno l’ombra di una rassegnazione: qui chiunque sa che le cose stanno molto diversamente da come le presenteranno i Tg della sera con i servizi quasi esultanti per una vicenda che «finalmente ha trovato una soluzione». Si organizza subito un’assemblea generale a Bussoleno, mentre il presidio viene spostato davanti al municipio di Chiomonte. Domani sera a Susa una fiaccolata che si spera molto partecipata. Il movimento ha già reagito.
La giornata di oggi consegna alcune considerazioni inevitabili, a partire da quella riguardante una politica che ha abdicato al proprio ruolo e che non riesce a proporre soluzioni diverse da quelle dell’impiego della forza. Si dirà che la questione del Tav viene dibattuta da anni, ma rimangono le omissioni, i dubbi irrisolti sui costi e sull’utilità del progetto e l’insofferenza nei confronti di una cittadinanza che ha espresso livelli di democrazia e partecipazione raramente riscontrati altrove. Rimangono gli interrogativi riguardanti la posizione del Pd, che a Torino si è schierato apertamente a favore dell’opera e ha chiesto l’intervento militare; rimane l’intollerabilità di un’informazione che deforma gli avvenimenti e demonizza sistematicamente un movimento che si è sempre caratterizzato per la sua indole pacifica.
Qualcuno ha definito questo 27 giugno «una giornata ordinaria di violenza e arroganza». Ma bisognerebbe ricordare che in fondo si tratta appunto soltanto di una giornata, per quanto dura e importante, mentre questa valle resiste da ventidue anni. Difficile spiegare come abbia fatto. Forse possono essere utili in questo senso le parole che Eugenio Fassino – comandante di brigata che si muoveva tra la Valsusa e la Val Sangone nonché padre dell’attuale sindaco di Torino – usava per raccontare ai suoi partigiani il motivo della loro resistenza ai nazifascisti: «Noi non siamo come loro», diceva. Nient’altro.