Roma, quartiere Quadraro, notte tra il 23 e il 24 febbraio.
S., 32 anni, in stato di fermo in una caserma dei carabinieri: ha rubato due magliette in un grande magazzino, una figlia da mantenere, niente lavoro, niente soldi e nella mente il ricordo delle botte dell'uomo con cui aveva una relazione e da cui aveva avuto la forza di scappare, provando a ricominciare da capo in un'altra città, lontano.
In una camera di sicurezza, sta dormendo. Tre carabinieri e un vigile urbano le strappano la coperta di dosso, la portano in sala mensa, la trattengono a sedere, la costringono a bere e poi la violentano, su un tavolo: sono in quattro, altri guardano, qualcuno controlla.
S. denuncia la violenza subita e viene in seguito accompagnata al Policlinico Casilino. I tre carabinieri coinvolti vengono in un primo momento trasferiti in reparti lontani da Roma, uno a Torino, uno a Cagliari, uno a Milano, e il vigile urbano destinato ad altro ufficio, ma, pochi giorni fa, sono stati sospesi per motivi disciplinari, in via precauzionale. Questi i fatti. Come da copione, orribile e purtroppo ripetuto, i tre militari e il vigile urbano hanno subito affermato che S. era consenziente, anzi, che l'unico rapporto sessuale sarebbe avvenuto in una situazione totalmente amichevole e per libera scelta. Pretendono di farci credere che una giovane donna, in stato di fermo, in manette, a notte fonda, probabilmente spaventata, abbia potuto scegliere di aver rapporti sessuali su un tavolo. Pretendono di farci credere che sia normale rientrare in caserma, anche se fuori servizio e solo per dormire, e abusare come un oggetto in propria totale disponibilità di un corpo di donna per concludere una serata di bevute. Pretendono di farci credere che commettere una sola violenza sia meno grave che aver violentato una donna inerme in quattro. Pretendono di farci credere che guardare i propri colleghi che stuprano sia meno rilevante che stuprare. Una violenza compiuta indossando una divisa non la rende più ignobile, ma la amplifica e in qualche modo la condiziona anche dopo che è avvenuta, dal momento che una divisa definisce un ruolo, che è ruolo di potere, determina l'appartenenza a un gruppo, che difende se stesso e i propri membri, e sempre più spesso autorizza e legittima violenze e impunità, dalla caserma di Roma al Cie di Milano in cui è stata stuprata Joy. Un uomo indivisa che torna in caserma per la notte è esattamente come il marito che picchia tra le quattro mura di casa, il bravo ragazzo che stupra in un parcheggio, lo sconosciuto che aggredisce per strada: per tutti loro la donna è
semplicemente una cosa da prendere, un oggetto a disposizione di cui si riconosce parola e volontà solo per poter poi dire era consenziente. E' sempre violenza maschile contro una donna, e, in questo caso, è¨ anche violenza di Stato: lo Stato che vorrebbe garantire sicurezza militarizzando le città , lo Stato che va a caccia di migranti, rom, lavavetri, lo Stato che perseguita le prostitute, lo Stato che ammazza nelle sue carceri è lo stesso Stato che stupra S., Joy e tante altre di cui non sapremo nulla perchè contro lo Stato, soprattutto se povera o migrante o ladra è difficile andare e questo quei quattro in divisa lo sanno benissimo. Sta a noi dire no. A noi donne. Oggi vogliamo lanciare un no forte anche contro il modo in cui la violenza maschile contro le donne viene presentata dai giornali e dalla televisione: la causa è sempre da ricercarsi nel dato estremo, particolare, colpevole e infatti o si tratta di un raptus di follia, o di gelosia, o di eccesso di passione o, come in questo caso secondo il ministro La Russa, di poche mele marce che vanno subito allontanate, ma si tace il fatto che la violenza maschile contro le donne è norma quotidiana, che non conosce differenze di territorio, nazionalità, classe sociale, e appartenenza politica. A scorrere i titoli di questi giorni c'è da rabbrividire, come ormai d'abitudine quando si tratta di stupro, perchè una seconda violenza viene imposta con le parole a chi quella violenza ha subito sulla propria carne, come è accaduto a S. nella caserma dei carabinieri del Quadraro a Roma: S. è stata descritta prima come prostituta, poi come ladra, poi come fragile psichicamente e infine, quando proprio non si sapeva più che cosa scrivere, quasi a giustificare lo stupro e a creare una linea netta di demarcazione tra le donne vittime davvero e quelle che un po' se la sono andata a cercare, come consenziente, ripetendo le parole di chi, di fatto e non per congettura, ha abusato di lei. Vorremo dedicare questo 8 Marzo anche a S., una giornata che deve essere di mobilitazione e lotta, non perchè una vicenda di violenza maschile contro una donna sia più grave o più odiosa di altre, ma proprio perchè ogni volta, in qualsiasi forma e con qualsiasi abito, la riconosciamo come violenza contro ognuna di noi, non evento straordinario ma quotidianità contro cui, come donne, saremo sempre irriducibili e indomabili.
La nostra sicurezza è la nostra ribellione!
La nostra sicurezza è la nostra ribellione!
Ermelinda.